14 mag 2020

Il mondo in lockdown: le voci dei nostri Alumni

In principio fu la Cina, che ha fronteggiato virus e lockdown con rigore assoluto. Poi è toccato all’Italia, all’Europa e a cascata al resto del mondo, con ogni area che beneficia del “vantaggio” temporale e degli errori di chi l’ha preceduta. Dalla Cina agli Stati Uniti, passando per la Nuova Zelanda e l’Africa: ecco cosa ci raccontano i nostri Alumni.

La Cina è pronta a ricreare il sogno cinese.
 

Nonostante le varie accuse di ritardo nel comunicare, di numeri falsati e di virus creati in laboratorio, il metodo cinese si è rivelato efficace. Una chiusura totale e severissima, e poi il successivo passaggio a movimenti liberi per i residenti con QR code verde: un cambio di passo che è stato piuttosto rapido e indolore.

Quarantene vere in palazzi appositi e tracciamenti costanti, mascherine imprescindibili e soprattutto organizzazione al millimetro: la Cina ha giocato d’anticipo rispetto alle metropoli mondiali, diventando man mano il termometro di ciò che potrebbe accadere anche in Europa. 
“Raccontare di una città all’avanguardia come Shanghai, non può descrivere in modo esauriente la situazione generale di questo grande Paese. Shanghai è ripartita alla grande e questo è evidente per chi vive nella capitale degli affari cinese, perché già abituato a un progresso costante. Il mercato interno cinese sta ripartendo, i centri commerciali sono popolati, c’è più cautela su bar e ristoranti, che sono riaperti ma non al 100%, mentre i trasporti sono a pieno regime. Le scuole hanno garantito sempre il distance learning, ma stanno riaprendo anche fisicamente”, racconta Pierluigi Giraudi, Chapter Leader di Shanghai.

 

La revenge spending è reale.

 

“La gente ha voglia di uscire e ha voglia di spendere più di prima. Per ora c’è un rallentamento per l’industria del turismo: basti pensare che durante la festività nazionale di questo maggio ha visto volare 115 milioni di cinesi contro i 200 Milioni dello scorso anno, ma è comunque un buon segno di ripartenza, se consideriamo che il lockdown è recente”, spiega Stefano Ortolina, Deputy Chapter Leader di Shanghai.

Un segnale incoraggiante, dunque, che porta a una sensazione di orgoglio e di gran voglia di normalità.

“È così: il feeling generale è quello di tornare alla vita di prima e alla volontà di ricreare quel sogno cinese che è stata la crescita costante negli ultimi 30 anni. La Cina è pronta e sta facendo la sua parte per tornare a quello che era un mondo sicuramente non perfetto, ma che quanto meno si stava muovendo nella direzione giusta”, conclude Ortolina.

 

Nuova Zelanda: un metodo diventato oggetto di studio.



La premier Jacinta Arden, 39 anni e in carica da meno di tre, ha reso il suo Paese esempio unico al mondo di gestione esemplare dell’emergenza, quantomeno per il numero di contagi. Ma nonostante questo, la Arden ha riaperto alla vita sociale con prudenza solo da pochi giorni e ha confermato la chiusura dei confini per molto tempo. La sua strategia è stata chiara dall’inizio: soppressione totale del virus. Proprio grazie all’anticipo dato dalla Cina, ha chiuso tutti i confini, ma la mossa decisiva è stata quella di fare tamponi tamponi a tappeto e tracciare ii contatti. Risultato? La curva si è avvicinata allo zero in sole due settimane. 

“Certamente 5 milioni di abitanti e la media di 18 abitanti per km quadrato senz’altro hanno reso il metodo più efficace, oltre al fatto che un’isola è meno soggetta agli sconfinamenti, ma di fatto il metodo Arden ha funzionato e l’economia della Nuova Zelanda è intatta”, ci racconta un'altra Alumna residente ad Auckland.

Ma il metodo Arden piace anche perché è un ottimo esempio a livello politico: si è autoridotta lo stipendio del 20% per i prossimi sei mesi, così come tutti i suoi ministri. E in un Paese appena sfiorato dall'emergenza, il gesto ha ancora più valore.

 

 

L’Africa che ha imparato la lezione.



Solo fino a due mesi fa, il sud del mondo era soltanto un lontano spettatore di quello che sembrava essere il virus dell’Occidente. Eppure, nel giro di pochi giorni il Covid 19 ha colpito anche l’Africa Sub-Sahariana, costringendo il continente nero a schierare le proprie truppe: sin dai primi casi di contagio - registrati agli inizi di marzo - i diversi stati hanno iniziato a mettere in atto dure politiche di lockdown e chiusura delle frontiere, puntando su contenimento e prevenzione del contagio.

Ma facciamo un passo indietro. A causa di teorie complottistiche e malagestio dei tempi che furono, oggi il Sudafrica ha oggi il numero più alto al mondo di sieropositivi. Ma da quella tragedia ha imparato la lezione, e oggi  è uno dei Paesi che stanno affrontando meglio l’epidemia di Covid. E, soprattutto, lavora sul campo: ha infatti reclutato 30 mila operatori sanitari girano i quartieri in cerca di contagiati, un approccio fondamentale soprattutto nelle baraccopoli dove le persone non possono vivere separate dagli altri. Un modello gestionale encomiabile, che ci riporta a un immediato paragone con la nostra Lombardia, ancora inspiegabilmente in alto mare da questo punto di vista.

Benedetta Giugliano, Alumna residente a Johannesburg, ci offre uno scenario dettagliato di cosa sta accadendo. 
“Abbiamo sicuramente a che fare con paesi complessi, arretrati e sottosviluppati per molti aspetti, ma abituati a dover affrontare crisi sanitarie difficilissime – da quella dell’AIDS negli anni 80, alla più recente Ebola in Africa Occidentale, passando, per le quotidiane battaglie contro malaria e TBC, che risparmiano poche aree del continente. Ed è proprio grazie alla consapevolezza dei limiti logistici e strutturali dei propri paesi, che i governi africani hanno reagito subito in modo stringente”, racconta. “Qui non c’è tempo per i dibattiti: in paesi come il Malawi, dove più della metà della popolazione vive senza acqua corrente e sapone, e in cui i letti di terapia intensiva sono 25, o come nel Mali, dove si conta un medico ogni 5mila abitanti e un respiratore ogni milione di abitanti… Va da sé che o si conteneva da subito, o era la fine”.

 

Il metodo sudafricano.


Il Sudafrica ha reagito chiudendo immediatamente i confini, vietando qualsiasi spostamento sul territorio e limitando al massimo quello delle persone all’interno dei diversi quartieri – ad eccezione dell’acquisto di generi alimentari, medicine e riscossione dei sussidi sociali.

“Il nostro metodo - racconta Benedetta, - “è stato definito “uno dei migliori modelli” da innumerevoli esperti internazionali e dalla stessa OMS, visto che è ha portato all’appiattimento della curva di contagio con grande sopresa da parte degli esperti mondiali di modelli di previsione, che erano già in allarme e si aspettavano quota 4mila contagi entro il 2 aprile grazie anche al level 5 di lockdown, il più severo.

“Basti pensare che qui da noi i funerali, uno degli avvenimenti più caratteristici e complessi del popolo africano, ora hanno al massimo quindici persone e non possono durare più di due giorni… confrontando con la tradizione, che vede migliaia di partecipanti, dove ogni funerale può durare intere settimane”, spiega Benedetta, per dare il quadro della rigidità del governo locale.

 

La ripartenza africana.

 

Tasse più basse, incentivi economici per le famiglie a basso reddito e la creazione di un fondo che sarà utilizzato per la popolazione bisognosa, con il supporto anche di società private. E poi: sospensione delle rate dei mutui, accesso al credito anche a chi era stato dichiarato inadempiente: la banca centrale ha chiesto a banche e mobile money service providersdi rinunciare alle commissioni di transazione e trasferimento, in modo da disincentivare l’uso di denaro contante. Di contro, la tradizionale scarsa fiducia nella trasparenza dei governi da parte dei cittadini, potrebbe, nel lungo periodo, mettere a repentaglio qualsiasi tentativo di cooperazione.

“La vera sfida per l’Africa sarà quella dirilevare l’impatto delle misure sul benessere socio-economico nelle aree più povere. Sfida altamente problematica, trattandosi di paesi da una crescita molto rapida negli ultimi anni, ma di popolazioni con un “mindset” poco impostato verso una pianificazione futura strutturata, abituate a svegliarsi ogni giorno senza sapere se avranno cibo a sufficienza per sfamare le proprie famiglie. Il malessere popolare è sicuramente acuito dal senso di immobilità, dall’aumentare dei militari per i controlli in strada, dalla privazione del lavoro, a vere e proprie censure all’opposizione imposte da alcuni governi. Non è da sottovalutare come molte delle forme di governo africane siano democrazie solo di facciata, pronte a privare l’individuo di ogni libertà personale in nome di un’emergenza epidemica.
Il vero e imminente pericolo è che questo disagio esploda in forme di proteste, portando a disgregazioni sociali ben più pericolose del virus stesso”, continua Benedetta.
E tra gli ottimisti, c’è chi sottolinea l’importanza storica di questo momento, che potrebbe rappresentare una vera opportunità per accelerare il processo di decolonializzazione. Quello che è certo è che l’Africa si trova, per la prima volta nella storia, a dover contare solo sulle proprie forze e risorse per fronteggiare una crisi sanitaria ed economica mondiale senza precedenti.

 

Le nuove basi per l'Africa.

 

“Non diamo però per scontato che i paesi africani saranno destinati al collasso: questi popoli, nonostante le loro insormontabili difficoltà e problematiche, hanno dimostrato una forza e resilienza encomiabili in innumerevoli occasioni nel corso della storia. Non si tratta solo di affrontare una sfida difficile, ma di prepararsi a mettere le basi per un mondo nuovo sotto molti aspetti e permettere alle popolazioni africane di farlo da sole”, racconta Benedetta.

D’altra parte lo ha dichiarato anche il Presidente sudafricano: “Siamo risoluti nel nostro proposito di non far tornare la nostra economia dov’era prima del coronavirus, ma di forgiare una nuova economia in una nuova realtà globale”. E chissà: il fattore vincente potrebbe essere la combinazione di elementi come la giovane età della popolazione, lo stretto legame con la terra, la quasi totale assenza di tecnologia e la pragmatica creatività africana.

 

Gli Stati Uniti e la resiliente New York.

 

Le teorie di Trump hanno fatto il giro del mondo: si è schierato apertamente contro il lockdown mandando il tilt il Paese - e anche i suoi consiglieri - esternando la sua propensione per l’immunità di gregge - per poi ritrattare. Di fatto, gli Stati Uniti stanno sperimentando l’incertezza più totale. 
Se da un lato la vastità del Paese mette al riparo le comunità più lontane dai grandi assembramenti, dall’altro pone le città vitali in un grande stato di crisi, alimentando le fazioni che vogliono sacrificare un certo numero di morti pur di non collassare economicamente. A ogni buon conto, i dati parlano chiaro: gli Stati Uniti hanno sinora raggiunto la soglia dei 35 milioni di disoccupati, con una media di 2500 morti al giorno, con i dati che rimbalzano e cambiano molto velocemente, ma che restano tragicamente alti.

Vedere città come New York, che hanno nel loro dna rumore, traffico e fiumane di persone, completamente spente, catapulta gli spettatori in un film post-apocalittico. D’altra parte, proprio la City è stata l’epicentro del contagio, e nonostante fenomeni terribili come il raddoppio dei suicidi nei Queens, il governatore Cuomo ha protratto il lockdown fino al 15 maggio, nonostante le continue pressioni di Trump per riaprire.

 

Il grande senso di community dei newyorkesi: l’ottimismo di Leila.

 

“New York in particolare è stata colpita duramente, anche perché qui molti non possono permettersi di non lavorare. E qui non ci sono leggi che proteggono il tuo posto di lavoro: se l’azienda va in sofferenza, ti lasciano a casa”, spiega Leila Horn, di Friends of Bocconi, basata proprio nella City.

“Le persone qui hanno preso la pandemia molto seriamente e rispettano le regole. Le persone lavorano in modo efficiente da casa o inventandosi idee creative per tenersi il lavoro e mantenere in vita le aziende. Ma quello che è incredibile è vedere quanto si riesca a fare da casa con un computer e un telefono: i newyorkesi sono le persone più forti che io abbia mai visto: ricordiamoci che si sono rialzati dopo l’11 settembre e si rialzeranno anche da questo. Ricostruiranno la città ancora meglio di prima, perché sanno come fare. E lo sanno fare insieme. Nessun altra comunità del mondo riesce a stare più unita di quella newyorkese”, conclude Leila.