12 ott 2020

L’era dei southworkers

Sono i lavoratori e studenti “fuori sede” che dopo il lockdown sono tornati nei luoghi d’origine - e lì vogliono restare. La produttività lavorativa non cambia, anzi migliora: serve però tenere aperto varco del cambio di mentalità delle aziende e di chi le governa.

South Working: naturalmente non è solo “Sud", bensì un fenomeno più ampio che ha colpito molto Milano e l’Italia, ma anche altre grandi città come Londra, Parigi, New York, Barcellona che hanno perso milioni di residenti, con rilevanti impatti economici.
Solo nella Grande Mela, per esempio, i prezzi delle case nei sobborghi sono schizzati alle stelle, mentre quelli di un’ormai semi-deserta Manhattan sono in discesa, con un calo del 56% delle vendite.
 

Ritratto dei southworkers
Usano la scrivania della loro (fu) cameretta, parlano con i colleghi su Teams; hanno accantonato la giacca, i tacchi e le metropolitane intasate. I più fortunati fanno pure la pausa pranzo in riva al mare con due arancini preparati dalla mamma o una camminata distensiva in montagna prima di ricominciare con le riunioni online.

Uno scenario naïf ma molto, molto reale di una categoria piuttosto eterogenea che comprende studenti e professionisti affermati, con una forte preponderanza di trentenni  - in gran parte non sposati e senza figli -, con un livello di istruzione alto (laureati o col dottorato), specializzati nei comparti ICT, digital marketing e nel terziario, come assicurazioni.
Con un minimo comune denominatore: la voglia di tornare al Sud e creare lì la propria famiglia.

Ne sono nati un’associazione e un gruppo Facebook dedicati, con testimonianze concrete di vite che cambiano: famiglie che vanno a vivere al mare; altri che disdicono l’affitto di carissimi monolocali in città e tornano nella grande casa di campagna in Molise e adibiscono la taverna a ufficio; o, ancora, chi addirittura si trasferisce in barca e lavora navigando tra il l’Elba e le Egadi.


Come nasce il Southworking
Il “la” è stato dato il lockdown, con milioni di persone che hanno lasciato le città e sono rientrate alla base. Giorno dopo giorno si è reso evidente che la produttività lavorativa era identica se non addirittura migliore (in molti casi anche del 15/20% in più); e così i giorni sono diventati settimane e mesi, e in molti casi si tramuterà in una condizione permanente.

Una nuova vita dove cambia anche la socialità: meno rapporti coi colleghi, ma ripresa dei contatti con gli amici d’infanzia e un nuovo “giro” di frequentazioni. E ancora: tempi di percorrenza casa-ufficio azzerati che permettono di recuperare tempo per sport e hobby, fare formazione, dedicarsi al volontariato. E, non da ultimo, costo della vita più basso (ma con lo stipendio tipicamente più alto delle aziende del Nord), con risparmio sull’affitto e il beneficio degli affetti.

Una situazione che piace al southworker – anche se piace un po’ meno a chi grazie ai fuori sede viveva: basti pensare a quelle attività in centro città come i bar che vedono punte del 75% in meno nel fatturato.
L’esempio di Milano è lampante: una città che negli ultimi vent’anni ha avuto 100.000 residenti in più provenienti da altre regioni, si ritrova improvvisamente orfana, senza “consumatori”.
 

Gli innegabili benefici 
Per il Sud, moltissimi. La fuga dei cervelli è finita; i giovani che ora rientrano possono creare valore e innovazione per il loro territorio, ripopolando i paesi e alleggerendo le città, con una più equa redistribuzione della popolazione in tutta la penisola.

Per le aziende il South Working si traduce invece in un importante risparmio di costi: manutenzione uffici, buoni pasto, una minore propensione dei lavoratori a prendere giorni di malattia (con il raffreddore tutto sommato puoi lavorare da casa) o permessi per motivi familiari.


Il futuro
Con lo smartworking finalmente sdoganato - secondo l’Istat siamo intorno agli 8 milioni di lavoratori da remoto, contro l’1,3 milioni del 2019  - inizia una nuova era, dove andrà completamente ripensata l’organizzazione del lavoro.

Al netto di pro e contro, c’è una consapevolezza: indietro non si tornerà.
In questo senso, lo smartworking è stato un boomerang, con i lavoratori che hanno ormai il coltello dalla parte del manico – e lo tengono ben stretto.

D’altronde, se ha funzionato nel momento di massima crisi, dove nessuno era preparato alla riconversione digitale, perché non concedere il lavoro agile anche dopo, per un migliore equilibrio tra vita lavorativa e personale?


Come consolidare il South Working
Se non ci fosse stata l’urgenza, il fenomeno avrebbe potuto essere gestito con calma e a step; tuttavia, la pandemia è il grimaldello che ha fatto saltare le rigidità delle aziende nel concedere il lavoro da remoto, un atteggiamento insensato in un mondo sempre più globalizzato e interconnesso.
Ora serve uno step-up: innanzitutto, tenere aperto il varco del cambio di mentalità delle aziende e di chi le governa – che da obbligato deve diventare naturale.
In secondo luogo, aiutare le aziende a riformulare i contratti con i dipendenti; in tal senso ci sarà un gran bisogno di consulenti specializzati e un lavoro di fino dei sindacati.
Terzo, ma non meno importante, va tenuta in conto la socialità. Va bene il risparmio dell’affitto, ma per certi aspetti si traduce in minore autonomia: tornare a vivere in famiglia non è così emancipante, oltre alle poche interazioni coi colleghi (se non online) e a una mancanza di rapporti umani che si può colmare con la creazione di presidi di comunità e spazi di coworking anche come punto di ritrovo, tutte soluzioni che aiutano a superare l’isolamento e a creare sinergie fra i lavoratori.